Il Carteggio Vicari-Pound
Giambattista Vicari-Ezra Pound,
"Il fare aperto",
- a cura di Anna Busetto Vicari e Luca Cesari-, Archinto, Milano, 2000
Giambattista Vicari, La letteratura in altro modo
Se l’altro ieri eravamo giovani, perché non dovremmo tentare di esserlo
ancora e sempre, magari in un altro modo? -G.B.V.1960-
La parte più consistente di questo carteggio appartiene agli anni della
vita e del lavoro di mio padre, rimasti in sordina, sconosciuti, quasi.
Credo che da ogni libro possano nascere delle occasioni, numerose
quanto quelle che l’hanno costruito, e così, anche da questo,
potrebbero saltar fuori ‘fatti insospettabili’, a disposizione di
qualche curioso.
Dunque vorrei semplicemente dare alcune informazioni a quei lettori che
stupiti potrebbero chiedersi : “Ma Vicari chi è?”.
Prima di tutto, era un ravennate : ricevette “spirito e alito di vita
dal Mausoleo di Galla Placidia” nel 1909. Prese una laurea in legge a
Bologna, e iniziò con un impiego in banca. Ma poco dopo scelse il
giornalismo. Quello fu il suo vero lavoro di tutta la vita, ciò che gli
garantì le finanze necessarie per dedicarsi alla letteratura.
Nel ’31 fu direttore del giornale “Santa Milizia”, organo della
federazione fascista di Ravenna. Nel ‘32-33 ebbe cariche politiche fino
a diventare giovanissimo federale. Fu un impegno preso senza vocazione,
che lo rese presto isolato nell’ambiente politico e nella sua stessa
città. Lì - disse più tardi- aveva bruciato la sua giovinezza : per
ingenuità aveva accettato l’invito dei più vecchi, credendo – lui che
non era compromesso - di poter avvicinare tutti gli altri giovani come
lui e ‘lavorare’. Ma si accorse presto che la classe dirigente era
inamovibile e che non c’era spazio né per i giovani né per altro.
“Calcolando che quelli che nel ’22 avevan diciott’anni, possano sparire
– morire – quando ne avranno 70, i giovani cominceranno ad avere
qualche speranza nel 1974. Beh, salutiamoli e andiamocene, torneremo
nel ’74 per vedere se c’è posto …”-da un diario inedito del ’34-. E se
ne andò : “vuoto intorno”, ma pieno in sé. La vena di scrittore si
manifestò con un libretto dedicato alla sua città, la Guida
sentimentale di Ravenna -1934-, nel quale Vicari tracciava itinerari
inconsueti per i futuri visitatori della sua città. Gli stava a cuore
che si cancellasse il luogo comune che la voleva ‘città morta’,
puramente monumentale. E non immaginava lui stesso che presto se ne
sarebbe staccato.
Pochi anni dopo, infatti, abbandonò definitivamente Ravenna per Roma.
Nel ’38 era capo-redattore al “Meridiano di Roma”, dove pubblicava i
suoi articoli con lo pseudonimo Fuisti, quandò incontrò Pound che gli
chiese di aiutarlo nella redazione italiana dei suoi articoli per il
giornale.
Le prime lettere di Vicari a Pound hanno un tono reverenziale. Le
differenze tra loro erano enormi, e non solo per l’età, la provenienza,
gli incontri e i progetti, ma per i differenti caratteri e modi di
affrontare la vita. Ma su alcune cose credo che si trovassero
facilmente d’accordo.
Vicari era molto più giovane, ma esigente : si era già fatto un’idea di
ciò che gli piaceva in letteratura e, soprattutto, di ciò che non gli
piaceva. Nel libro che raccoglieva i suoi articoli pubblicati sul
“Meridiano”-Fuisti, Sembra letteratura, Pretesti di vita letteraria,
Istituto Grafico Tiberino, Roma, 1940- scriveva: “E’ bastata una breve
esperienza per convincerci che la malattia più grave di cui è malata la
letteratura d’oggi è il clientelismo ... un complesso di atti intesi a
legare al proprio carro i vari bestioni trafficanti in letteratura,
buoni, buoni sempre a spingere le più cigolanti ruote, a muggir
d’entusiasmo a un cenno ... Recensioni a catena, scrivi tu che scrivo
io, pubblicità gratuita: ecco il sistema, sempre improntato al do ut
des, in ogni caso sul favore reciproco... Ora bisognerà pur chiedersi
se non sia il caso di smetterla con quest’usanza di covare le proprie
uova nel nido altrui e se non sia il caso, puttosto di ricostruirci più
scomode - ma più nuove e personali- posizioni di lavoro…”. E queste e
più nuove e personali posizioni di lavoro Vicari cominciò a
costruirsele fuori dalla redazione del giornale. Agli inizi degli anni
‘40 intravvide la possibilità di ravvivare quella che era stata fino ad
allora una rivista di radici provinciali, “Ansedonia”, diretta da
Antonio Meocci. Scrisse inumerevoli lettere agli amici scrittori, in
cerca di adesioni; la sua convinzione che l’esperienza più interessante
di quegli anni fosse sui fogli letterari-“Frontespizio”, “Prospettive”,
Letteratura”, “Corrente”- e sulle terze pagine dei quotidiani, lo
spingeva nell’impresa di creare una rivista che esprimesse
quell’intenzione di fondo : compiere un’opera di chiarificazione
letteraria, richiamare i critici al loro compito. Coinvolse Franco
Fortini, Adriano Seroni, Giambattista Angioletti, Geno Pampaloni -che
era già nella vecchia redazione di “Ansedonia”-, Giacinto Spagnoletti.
Dal numero 3 dell’Aprile 1941, “Ansedonia”, divenne “Lettere d’Oggi”.
Vicari, che ne aveva preso la direzione dal n.1, progettò subito
un’attività editoriale da affiancare alla rivista: una collezione di
romanzi brevi e una serie dedicata ai saggi e ai racconti-detta
“Biblioteca Minima Tempus”-. Già da Gennaio, Vicari era stato
richiamato in guerra e nonostante ciò, la rivista, appena rinata,
procedeva senza inceppi. Era mensile e fino a tutto il ’43 -anno in cui
furono sospese le pubblicazioni- uscì sempre regolarmente. Nel Giugno
1942 Vicari pubblicò una raccolta di brevissimi racconti un po’
surreali: Il Libro dei sogni, dedicato a Giovanni Macchia, che dal
dicembre ‘41 era diventato condirettore di “Lettere d’Oggi. Era il
primo libro della serie della Biblioteca Minima. I testi erano
accompagnati dai disegni degli amici pittori : Ciarrocchi, Tamburi,
Purificato, Omiccioli, Savelli, Maccari, Gentilini.
L’incontro e l’amicizia di Vicari con i migliori pittori e incisori di
allora rivelava una sensibilità particolare
alla forma del libro, che nel tempo coltivò sempre più.
“Lettere d’Oggi”si dedicava unicamente alla prosa e alla narrativa e i
nomi pubblicati furono quelli dei più giovani e interessanti narratori:
Pavese, Delfini, Manzini, Landolfi, Cancogni, Bigiaretti, Emanuelli,
Morovich. Tra il ‘42 e il ‘43 uscirono in volume La spiaggia di Pavese,
L’abito verde di Morovich, Delitto sullo scoglio di Cancogni, Esterina
di Bigiaretti, Oceanografia del tedio di D’Ors, Giorni aperti di
Caproni, Carta da visita di Pound. Questo limite all’impegno della
rivista aveva il sapore di un desiderio di disciplina interna e dunque
di maggiore possibilità di approfondimento. Aprirsi anche alla poesia
avrebbe forse potuto turbare quel bisogno di limpidezza e di
riconoscibilità, rischiando di fare di “Lettere d’oggi una semplice
antologia a discapito dell’incisività di una scelta circoscritta. E
poi, forse,Vicari amava meno la poesia … .“Basta con la poesia massimo
ed unico denominatore: e quale, del resto, schema più falso e
artificioso di questo? I generi tutti, si nutrono di poesia ...” .
Questo, che Vicari scrisse su “Ansedonia“ nel 1940, si potrebbe
considerare un’anticipazione di quella battaglia ai generi letterari
che fu tra le fondamentali della rivista “il Caffè” che fondò poi, nel
1953. Molti degli scrittori di ”Lettere d’oggi”, invece, Pound non li
amava proprio: “tu non m’hai convinto del valore della maggioranza dei
vostri lettered’oggisti ”, scrisse a Vicari nel dicembre 1943. E il suo
testo Narrare pubblicato sul n. 5-6 del 1941 è indicativo : solo Tozzi,
Morselli e il Moscardino di Pea meritavano di essere letti oltre i
confini italiani. Tra quei pochi libri ce ne fu un altro che Pound
elogiò incredibilmente : l’unico romanzo pubblicato da Vicari, Il
Cortile, uscito nel 1943 nella collezione di “Lettere d’Oggi”, per il
quale il poeta desiderò anche una traduzione in inglese. Si trattava
della descrizione della vita di un cortile e - ancor più che la vita
pratica dei personaggi - le voci, i ricordi, i rimpianti. Il
protagonista Ulisse si trova “in un sol colpo, come buttato nel
cortile” di una casa. E’ una ‘nascita’ traumatica, dopodichè, per il
personaggio, la vita consiste nell’osservare quella altrui. E il
cortile diviene così un sipario, dove voci finora sommesse divengono
concrete e i fantasmi uomini, vite reali. I vecchi cortili “tengono
strette coi loro denti di sasso, finchè possono, le loro cataste di
segreti rugginosi, malinconici… La luce è un flagello…Tutto viene a
galla”. E’ così per Ulisse, che,” ritrova la strada di un dolce
patimento, guidato verso la vecchia casa da un lontano istinto
scaturito come per destino in un momento qualunque della sua vita
randagia”. Ulisse rinasce, ritrova il tempo, si ricongiunge con la sua
vita passata. Il cortile è il testimone e il custode di tante vite,
ricordi e destini. E lui torna là, ricomincia la sua vita da dove aveva
preso la piega sbagliata, cioè quando s’era fatto prendere dal
desiderio di dimenticare. “Da che cosa viene tutto questo agitarsi
degli uomini se non dal desiderio di dimenticare qualche cosa?”
Pound definì il romanzo “elegia tremenda” : un senso di immobilità ne
percorre tutte le pagine, qualcosa che non ha inizio né fine, come
intuisce alla fine il protagonista : “che soltanto ciò che è nel mezzo
conta e rappresenta la vita, l’unico istante in cui la vita sia davvero
per quel breve momento che è consentito”.
Vicari, poi, più avanti negli anni, disse di non amare e non
riconoscere più quel libro, che tra l’altro, a causa della guerra, non
fu mai distribuito. Dopo queste prime prove Vicari abbandonò la
narrativa : “La veste del sottoscritto -piccolo imprenditore
letterario, assistente perpetuo al lavoro altrui- gli ha tolto ogni
velleità di trasformarsi in partecipante attivo” scrisse in un
autoritratto -Ritratti su misura, a cura di Elio Filippo Accrocca,
Sodalizio del Libro, Venezia, 1960-.
E così coltivo la vena di scopritore di talenti, di editore, di
tipografo raffinato -negli anni ‘50 stampò libretti preziosi, di misure
e forme inconsuete-, di giornalista, di letterato aperto. Una forza
accomunava Vicari a Pound; e stava nel cercare e difendere un’idea di
letteratura che non fosse quella più facilmente riconosciuta,
assegnando il ruolo fondamentale alle riviste e al dibattito
che esse dovevano garantire. Scriveva a Pound: “Sono nemico degli
estetizzanti quanto dei propagandisti. Tra l’ eccessiva purezza dei
primi e il moralismo utilitario dei secondi c’è la vera umanità, la
rappresentazione sotto specie di poesia”.
E a proposito delle riviste, Vicari denunciava il rischio che queste
correvano di trasformarsi in “magazzini eclettici”: “Ecco dunque cos’è
una rivista letteraria: o una tribuna del tutto libera e solitaria, o
una zona di interessi comuni, un mercato continuo. E il mercato,
naturalmente, è attivo e dignitoso a seconda dei materiali che vengono
offerti”.
Vicari stimò sempre moltissimo la letteratura francese e il suo
ambiente letterario, nel quale le riviste agivano con una stimolante
azione di sostegno e di accompagnamento del fatto creativo. Ma
constatava anche la caduta di ruolo di alcune di esse, come nel caso
della “Nouvelle Revue Française”, che in qualche modo campava di
rendita, ormai canonizzata per il passato illustre, ma povera delle
grandi collaborazioni degli inizi. Il rapporto con Pound fu ricco di
scambi, di opinioni e di consigli, ma anche di aiuti pratici. Una
grande riconoscenza reciproca viaggia tra le righe di queste lettere:
Pound soffrì molto l’incomprensione, la tendenza comune ad alcuni
ambienti letteraria non tenerlo in considerazione. Manifestò tutta la
rabbia per i grandi fraintendimenti a cui era soggetto in Italia a
Vicari, che fu tra i pochi a seguirlo, forse a volte anche senza
capirlo del tutto, ma privo di preconcetti. La loro corrispondenza non
fu solo letteraria : i frutti della loro amicizia non maturarono solo
su libri e riviste, ma anche molto praticamente e, credo, con grande
soddisfazione di entrambi, nell’orto di Vicari. Pound -anzi, la moglie
per lui- gli inviò infatti dall’America, pacchi pieni di cibarie e di
semi di verdure per l’attività di ortolano che Vicari si era
improvvisato a fare per sostenere la famiglia -nel ’47 aveva comprato
una casa con terreno sulla Cassia, a Tomba di Nerone dove poi lo
raggiunsero da Ravenna la madre e la sorella-.
“Le sono grato della scatola di semi che ho avuto e già seminato nella
mia campagna. Queste piante mi ricorderanno il grande amico lontano, e
mi sembrerà di avere un poco di lui, qui ”, scrisse Vicari a Dorothy
nel ’47. Dopo l’8 sett. ‘43 non vide più Pound fino al suo rientro in
Italia nel ‘58. E, in previsione del suo ritorno in Italia, gli offrì
ospitalità senza limiti. Negli anni ’50 Vicari collaborò a varie
testate : quotidiani e periodici. Era il critico della ”Settimana
Incom”, frequentava la cultura ufficiale e i caffè di Piazza del Popolo
e via Veneto. Ma doveva sentire una decisa insoddisfazione se di lì a
poco iniziò, in clandestinità, l’impresa del “Caffè”: “Si dovrebbe fare
un giornale che dica la verità su tutto e su tutti, senza paura,
dovremo pagarcelo noi, non è possibile accettare niente da nessuno”.
All’inizio si chiamò “venerdì “il Caffè” ed era un giornaletto di poche
pagine che si dedicava anche al costume e all’attualità, l’aspirazione
era di “portare la letteratura al cospetto di un larghissimo pubblico,
una specie di ragguaglio totale di ogni aspetto vivo e attuale della
cultura”.
Ma la spinta più profonda era quella di trovare scrittori nuovi: la
cosa più avvilente era per Vicari vedere come i toni dell’ermetismo e
del lirismo venissero di continuo ripetuti pur essendo ormai svuotati.
Ne scrisse a Pound : “La prosa è un poco più viva, varia. Tra i giovani
ci sono buoni romanzieri: però non c’è nessun gusto per la lingua, per
le strutture. Siamo in una rozza fase d’incultura: Manca un faber,
anche piccolo, che susciti problemi. Ci vorrebbe il tuo grande
magistero!” Sul primo numero del’54 Vicari pubblicò un florilegio
tratto dai Canti Pisani nell’edizione Guanda curata da Rizzardi, e in
una breve nota citò passi di una lettera ricevuta da Pound, di cui non
c’è traccia negli archivi: “Per sapere dove sta il pensiero
contemporaneo evitare le idee reçues… Non so se esistono ancora copie
del “Mare” di Rapallo come prova che ho cercato di portare materia
utile alla
vita intellettuale in Italia. Non importa se cinque romani o ravennati,
o chiunque cominciano adesso a tradurre i libri basilari. Non è lavoro
da un uomo solo. … Certamente tua rivista deve pubblicare il manifesto
dei 10 professori per il risveglio degli studi classici. Ma non
dormirci sopra”.
In ogni caso Vicari aveva un suo gusto, una sua idea di letteratura, e
da allora in poì investì tutto nella sua rivista. Nel ‘56 “il Caffè”
trovò la nuova veste, abbandonò l’ampio raggio e scelse il suo nuovo
stile. Gli amici che si impegnarono con lui a trovare la nuova strada
furono Emanuelli, Calvino, Soavi, Flaiano. Sarebbe scorretto definire
“il Caffè” in poche righe, ma poichè Vicari stesso nel giro di pochi
anni da “rivista politica e letteraria” passò a chiamarla “letteraria e
satirica”, prenderemo questa definizione come quella più utile a
intendere quel vasto repertorio che fu per venticinque anni -fino al
1977-. E voglio citare alcuni passi di quello che fu il primo
‘manifesto’ della rivista -“Pagina quarantotto”, 1957- : “Pensiamo a
una verità in movimento, che la letteratura deve sempre includere come
una profezia…Sollecitiamo un continuo tentativo d’aggiornamento della
parola che si atteggi in simboli continuamente imprevisti… Perciò
diffidiamo soprattutto del moralismo diretto, del patetico esplicito,
del lirismo, che automatizzano l’ispirazione e preferiamo genericamente
indicare l’ironia, la comicità, ma soprattutto la parodia, il
grottesco, la ricerca dell’eccentrico - cioè le deformazioni: e non le
più facili- come i più fecondi stimoli, per lo meno come i mediatori
per giungere a significati e prospettive perennemente nuovi”. Il nuovo
sottotitolo fu scelto nel 1964 : “enciclopedia permanente della
letteratura eccentrica” che al numero seguente divenne “letterario e
satirico”, appunto. Il primo numero di quell’anno presentava testi di
Roger Caillios, Wolfgang Hildesheimer, Aldo Buzzi, Stephen Themerson.
Ma già alla fine degli anni ‘50 “il Caffè era diventato tale: ospitava
i nomi più interessanti della letteratura mondiale. Molti testi
creativi, soprattutto in prosa, e una “zona riservata” allo studio
della satira, dell’eccentrico, del grottesco. Ogni numero, poi,
ospitava disegni di Maccari, Folon, Guelfo, Zannino, Cardon, Topor.
L’attenzione di Vicari alla grafica non va dimenticata, non solo per la
quantità di disegni satirici pubblicati sul “Caffè”, ma per la cura
particolare che dedicò sempre alla composizione di ogni numero, che
montava e smontava da sé, nello studio di casa, finchè non ne usciva la
forma voluta. La veste del” Caffè” mutò varie volte : alle copertine
celesti, seguirono quelle bianche -progettate da Max Huber- e poi le
ultime, nere : ma con una certa raffinatezza e classicità che le
accomunava, soprattutto nella scelta dei caratteri tipografici. Fu
Pound, come si legge nella sua lettera del 31 Agosto 1958, che, appena
rientrato in Italia, propose a Vicari di dedicare uno spazio del
“Caffè” alla recensione di libri scelti da lui, “ma recensiti da
persone di fiducia” -Risi, Giudici, Bertolucci, Martino e Anna Oberto-.
Poco dopo, sul n.10 uscì un articolo di Pound, che pubblichiamo in
appendice; è preceduto da una raccomandazione autografa all’amico :
“Vic, meliorare espressione, corrigere grammatica”. Dunque, quasi
vent’anni dopo, il rapporto tra i due procedeva secondo i canoni che ne
avevano segnato l’inizio, tra le bozze nella redazione del “Meridiano”,
quando Vicari era chiamato a correggere la forma italiana degli scritti
di Pound. Vicari si prestava ancora con interesse e con affetto, ma da
una posizione letteraria più forte ora, più sicura, anche se mai
definitivamente consolidata. La sua rivista, nata in clandestinità,
procedeva con la stessa precarietà degli inizi, soprattutto per ciò che
riguardava i mezzi finanziari, gli editori, i distributori. Ed è
curioso notare come anche lo scritto di Pound del ‘58 uscì anch’esso in
maniera sorprendentemente clandestina; Vicari lo pose nelle ultime
pagine, quelle del “Gazzettino”, dedicate alla discussione, ai fatti
redazionali, alle notizie spiritose sull’ambiente letterario, con
qualche sapore goliardico degli inizi, sulle quali anche Vicari, sotto
lo pseudonimo di R.G.Giardini, si divertì per anni a ‘infastidire’ la
redazione. Lui conosceva bene la sua strada : gli ripugnavano il
neo-realismo e la prosa d’arte. Preferì sempre, oltre ai grandi
Palazzeschi, Gadda, Delfini e i più giovani Calvino, Fratini, Arbasino,
rischiare con nomi sconosciuti e ancora da vagliare, ma che stavano
percorrendo strade diverse da quelle comuni. Così entrarono al “Caffè”
Corrado Costa, Guido Ceronetti, Giorgio
Manganelli, Augusto Frassineti, Luigi Malerba, Gianni Celati… e poi
tutti nomi del gruppo ’63, per lo stretto e antico legame tra Vicari e
Anceschi direttore del “Verri”. Piovevano spesso sul “Caffè” critiche
aspre, anche se mai feroci, poiché da parte di molti la rivista e il
suo direttore”, per quell’aria di lieve eleganza, non erano presi ‘sul
serio’. Anche Vicari, a modo suo, fu soggetto a fraintendimenti:
l’eccentrico, il grottesco, il nonsense e le varie diramazioni
-patafisica, oulipo, lettrismo e tutte le ‘deviazioni’ letterarie-
venivano scambiati per disimpegno. E chissà qual era il giudizio di
Pound sulla rivista, mai espresso direttamente in questo carteggio. Una
lettera del ‘56 di Vicari, che proponeva a Mary De Rachewiltz -anche
lei collaboratrice del “Caffè” con traduzioni da Cummings e Laughlin-
di pubblicare sulla rivista una “testimonianza” su Pound, fu
sottolineata da Olga Rudge, divertente e impietosa al tempo stesso, con
un avvertimento per la figlia: “io direi di NO! Tuo padre commenterebbe
“non saria compagnia seria”… lui pare una persona seria -un po’
leggerone forse- ma i caffeioli?? DUBITO”.
Ma un’altra lettera di Mary a Vicari del 18 aprile 58, riporta un
giudizio del padre: “Caffè excellent/ you can release this note on
sculpture to Vicari when you like/”. Certo è che “il Caffè” Vicari lo
tenne sempre aperto, finchè visse. Non divenne una scuola, una corrente
di formazione, fu però, per molti anni, un laboratorio, per quanto
clandestino. E va detto che questa clandestinità fu scontata tutta in
Italia perche dall’estero, soprattutto dalla Francia, arrivavano nella
casa di Via della Croce -che fu anche sede della redazione della
rivista- le lettere entusiaste e gli scritti di Queneau, Tardieu,
Adamov, che “il Caffè” pubblicò sempre in anteprima. E dei dimenticati
Cros, Morgenstern, Roussel, Leacock, Bierce “il Caffè” si ricordò
benissimo : li pubblicò in quegli anni fine cinquanta - inizi sessanta,
che furono i più fervidi per la rivista e nei quali Vicari curò due
antologie sull’umorismo -Umoristi del 900, Garzanti, 1959 e Umoristi di
tutto il mondo, Rizzoli, 1963-. Vicari accantonò gli scrittori che si
servivano semplicemente degli strumenti del comico e scelse l’humour,
“il quale - scrisse nell’introduzione a Umoristi di tutto il mondo, - è
una sottile suggestione stimolante, un contrassegno, una disponibilità
d’ordine spirituale in cui sono impegnate e chiamate in causa tonalità
e motivazioni ben più ampie e diremmo totali, oltre le misure e gli
schemi del genere”.
Quell’estetica dell’eccentrico fu poi espressa da Vicari in diciannove
saggi semiseri raccolti ne La smorfia letteraria -Maccari, Parma,
1968-. E nel ’71 pubblicò Sembra letteratura, con la presentazione di
Luciano Anceschi che scriveva: “noi dobbiamo a Vicari il riconoscimento
e la definizione di un filo sottile della letteratura: una letteratura
che, dopo essersi distrutta nell’ironia, non ha paura di ritrovarsi
come stravaganza e nuova libertà. Ormai certi nomi li sappiamo tutti, e
con loro certe relazioni, certe consonanze; ma Vicari li ha
riconosciuii e raccolti prima di qualunque altro, con un gesto insieme
affettuoso, preciso e distaccato”. Come appaiono lontane ora le prove
del Cortile. Quella che era apparsa agli inizi come una forma di
discrezione, si era poi rivelata negli anni come un intervento preciso
e continuo nella letteratura:la battaglia ai luoghi comuni per Vicari
si faceva così, rinunciando alle definizioni, alle catalogazioni.
Erano già arrivati gli anni del silenzio. Pound non scriveva più
all’amico. Vicari, se ne rammaricò molto, credeva che l’equivoco per i
Versi prosaici, che aveva stampato in formato diverso da quello
desiderato da Pound, avesse causato la rottura. Uno degli ultimi saluti
di Ezra a Giambattista è dell’1 Agosto1971. Un segno meno deciso in
calce a una delle due lettere di Olga Rudge che abbiamo scelto di
pubblicare.
A lei Vicari si era rivolto in quegli ultimi anni, per chiedere notizie
del poeta, con lettere di cui s’è persa ogni traccia; non sappiamo
cos’avesse scritto, ma sicuramente cercò la rassicurazione che in
qualche modo ottenne da Olga:“Non è uno di quei vecchi che vivono nel
passato. Ma non dimentica gli amici”. Vicari continuò a combattere,
pervicacemente e appassionatamente, con il suo esercito di irregolari,
una battaglia che appariva sempre più difficile. I pesantissimi anni
’70, si facevano sentire anche sulla rivista, che perse la leggerezza e
la ricchezza creativa degli anni ’50 e ’60. E si aggiungevano le sempre
più pesanti difficoltà pratiche -finanziarie ed editoriali- : ” sto
definitivamente tirando le somme. I conti non tornano. La fatica
materiale per tenere in piedi la baracca del “Caffè” è immane”. E “il
Caffè” chiuse definitivamente nel ’77, poco prima che prendesse congedo
definitivo anche il suo direttore -marzo ’78-. Ma si era seminato : i
frutti di quelle scelte, che aprirono le porte della letteratura a vie
più anticonformiste e libere, sono sparsi – immagino - un po’ ovunque.
Varrebbe la pena, ora, ritrovarne le radici.
Anna Busetto Vicari