Paolo Mauri, Omaggio al Caffè

 

 Paolo Mauri, OMAGGIO AL «CAFFÈ »,

“Nuovi Argomenti”, 2000

 

 

Nel 1977 feci – per “Repubblica” – a Giambattista Vicari una breve intervista augurale: “Il Caffè” tornava ad uscire dopo un anno e mezzo di silenzio dovuto alle solite difficoltà che hanno in genere le riviste. Ci vedemmo in una galleria di via Margutta.

Vicari riaffermò la necessità, per una rivista, di nascere da un gruppo, come accadeva ai primi del Novecento e naturalmente, senza bisogno di dirlo, nel glorioso “Caffè” dei fratelli Verri. E di essere libera. Libera anche dagli editori: povera e libera.

E rivendicava una storia lunga ormai ventiquattro anni e blasoni letterari a non finire nei nomi di Delfini, Gadda, Pizzuto, Palazzeschi. Quel numero del 1977 si apriva con un “Sillabario” illustrato di Italo Calvino che, rifacendo Perec, si divertiva a combinare miniracconti “potenziali” nello stile un po’ demente dell’Oulipo.

Sebbene, quando si parla del “Caffè”, non si pensi d’istinto a Calvino, è giusto ricordare che, grazie anche all’esperienza parigina, fu proprio Calvino a provare il gusto di certo spericolato sperimentalismo. Proseguiva, tornando a quel numero del 77, con testi di Arbasino, Ceronetti, Frassineti, Fratini, Almansi... Costava duemila lire.

Non era difficile scorgere in quelle pagine una certa connivenza tra gli autori, come se fossero legati insieme da un comune sentire. È vero, una rivista deve nascere da un gruppo, deve definire un’appartenenza. “Il Caffè” era nato nel 1953 con l’intenzione di rompere l’atmosfera seriosa che circolava in ambito neorealista: cercava nella letteratura una dimensione “contro” che via via si sarebbe sempre meglio precisata.

La satira, l’umorismo, la sciocchezza, ma anche il fantastico, come antidoti ad una visione cupa e pedagogica della letteratura, l’irrealismo dell’idiozia contro il realismo sorvegliato dai gendarmi, armati fino ai denti, del partito comunista. Alla politica seriosa quelli del “Caffè” preferivano il surrealismo fantasioso di Antonio Delfini, di cui Vicari fu sempre un sostenitore.

Sulla “Fiera Letteraria” del 17 ottobre 1948 proprio Vicari informa che a Viareggio Delfini ha iniziato le stampe dei “Quaderni di varietà politica e letteraria” di cui è uscito il primo numero detto “Quaderno A”. “Ci sono dentro”, commenta Vicari, “-in 8 facciatine- cose grandi così, alla Delfini, naturalmente: cose che piaceranno a Brancati e spiaceranno a Moravia.” E qualche anno dopo, prima che nascesse la rivista, ecco Vicari dedicare un lungo articolo sul “Lavoro illustrato” -2 settembre 1951- al “Manifesto per un partito comunista conservatore” appena uscito presso Guanda. Delfini, detto il duca di Modena, salva la proprietà terriera – che lo riguardava da vicino – purché contenuta entro certi limiti e si dichiara invece comunista per quel che riguarda le industrie, le grandi imprese, che propone di collettivizzare.

Credo di non sbagliare dicendo che “Il Caffè” è anche frutto dell’ammirazione di Vicari per Delfini che di fatto sarà sempre presente, anche dopo la scomparsa avvenuta nel 1963, come una specie di nume tutelare. In un numero del ’67 - per la precisione il n. 5- l’Accademia degli Informi gestita da Vicari e Frassineti onora Delfini -che a suo tempo l’aveva fondata- facendo tradurre un capitolo del “Gargantua” a diversi scrittori.

D’altra parte il consenso intorno a Delfini era venuto crescendo anche in zone non proprio “delfiniane” per elezione. Lo aveva lodato Carlo Salinari sul “Contemporaneo” e Carlo Bo, sull’“Europeo” del 13 ottobre 1957, aveva scritto “Quando si farà la storia dei personaggi d’eccezione della letteratura del Novecento non si potranno dimenticare né Carlo Emilio Gadda né Antonio Delfini: anzi saranno proprio i due nomi da trattare con maggior spazio e con la più profonda attenzione”. E poco dopo annotava: “Delfini ha fatto di tutto -si avvicina ai cinquant’anni- perché non lo si prendesse sul serio”.

Se dunque “il Caffè” si definiva ai suoi inizi “politico e letterario” mentre negli anni settanta avrebbe preferito la dizione “letterario e satirico” è evidente che il termine “politico” va preso nel senso ampio e paradossale che piaceva a Delfini. Il quale voleva sì fondare un partito, ma nel modo più bislacco possibile e suggeriva di tenere aperte le biblioteche di notte per poterle comodamente frequentare. Non gli era, infatti, mai riuscito di andarci visto che non si alzava mai prima di mezzogiorno.

Riserve su Delfini ne aveva invece espresse -su “Letteratura” gennaio-aprile 1958- Luigi Baldacci che con garbo, ma anche con decisione, ricordava a coloro che facevano festa all’intelligenza di Delfini che non bisognavadimenticare il suo ritardo rispetto a Palazzeschi.

Delle riviste bisognerebbe sempre fare un’analisi paratestuale: scorrerne gli annunci a margine, decifrarne gli apparati redazionali, valutarne il corredo illustrativo.

Dal “Caffè”, per esempio, si vede la scarsa confidenza con l’arte coeva nelle sue punte più avanzate e la ricerca, invece, di supporti illustrativi “affini” nel senso di autori “satirici” come Folon o Topor. Quando non si scade alla connivenza, per pure ragioni di vicinato, con le gallerie più tradizional-commerciali di via Margutta e dintorni. Dagli appelli accorati agli abbonati e soprattutto agli abbonandi si coglie la perpetua difficoltà a far quadrare i conti e l’ossessiva ricerca di un po’ di ossigeno.

Nel numero 5-6 del 1969 -uscito però nel ’70- a pag. 237 si legge “ I redattori, collaboratori e gli amici de “Il Caffè” si riuniscono ogni quindici giorni presso la trattoria ’Il Porcellino’, via della Vittoria 16 A, Roma -parallela di via della Croce-. Siete invitati”. In diversa occasione si prospettava addirittura un rendez-vous quotidiano.

Dunque il “fare gruppo” nelle intenzioni di Vicari e degli altri più vicini al “Caffè” non era un modo di dire e d’altra parte se le glorie dell’Aragno erano ormai arcaiche, legate per lo più agli anni Venti, quando si poteva sorprendere il giovanissimo Campanile parodiare la “Rosmunda” di Sem Benelli -“Caro Alboino/bere non posso/tutto quel vino/dentro quell’osso”- a Roma l’idea del caffè letterario o comunque giornalistico e artistico ha ancora una sua voga forte negli anni Cinquanta e Sessanta con via Veneto e piazza del Popolo. E taccio per brevità delle trattorie di cui, da Menghi a Cesaretto, tante volte si è parlato.

La vita in comune, che si sarebbe poi spostata in forma minore nelle case private, era una prova generale, l’esibizione della propria voglia di fare e della propria voglia di esserci. Non per nulla i caffè erano per molti i luoghi delle scritture, delle occasioni di lavoro, delle attese, tra cinema e più tardi Tv, giornalismo e letteratura. In quegli anni, per esserci, bisognava essere o diventare romani. L’opera di Flaiano potrebbe anche essere letta come un ininterrotto colloquio con Cardarelli avvenuto in pubblico.

 L’indirizzo di Vicari era quello della rivista: via della Croce 67. Ed è per questo che di via Vittoria viene data la rassicurante indicazione toponomastica che la colloca nei dintorni immediati della casa madre. Ma nel gennaio del ’63 la rivista poteva vantare una redazione milanese ed una parigina, naturalmente situate in case amiche: quelle di Giorgio Soavi e di Enrico Fulchignoni, per essere precisi, mentre la distribuzione era affidata a Vanni Scheiwiller.

Evento, quest’ultimo, salutato dal direttore responsabile con grande entusiasmo, anche se fino all’ultimo Vicari non trascurò di portare l’ultimo numero della rivista personalmente alle librerie amiche del centro di Roma.

 Nata nel ’53 con impulsi antineorealisti “Il Caffè” fu ovviamente invaso dagli sperimentali della neoavanguardia. Eco vi pubblicò -nel numero 5 del 1962- il proprio celebre elogio di Franti e collaborarono spesso Arbasino, Giuliani, Malerba, Pagliarani, Guglielmi, ecc.

Ma “Il Caffè” non fu mai propriamente una rivista “sperimentale” preferendo molto di più essere variamente antologica. Nel ’63, per esempio, pubblica due poemetti, “Tappeto orientale “ e “Il potere” di Pasolini con una nota di Ottavio Panaro che lo definisce “un decadente dimentico della tradizione, ormai istituzione decrepita; in lite ed in rottura con l’attuale stagione”.

Negli anni settanta la rivista si fregia di un comitato di redazione che comprende Barilli, Calvino, Celati, Chiara, Costa, Frassineti, Fratini, Malerba, Manganelli, Milanese, Soavi, Vollaro e Volponi, di un condirettore -Pedullà- e di tre redattori: Franco Cordelli, Franco Palmieri e Pier F. Paolini.

La frangia dei saggisti si allarga, ma il compito che la rivista si è data resta sempre lo stesso: far da veicolo alla letteratura bizzarra, umoristica, paradossale e a quell’irrisione che sembra fatta apposta per attraversare felicemente gli anni della sperimentazione e quelli della contestazione.

 Vicari ne è l’anima felice e a lui si deve la diffusione italiana di molti scrittori stranieri tipicamente da “Caffè”. Gaio Fratini, nell’introduzione alla sua antologia de “Il Caffè” -Lubrina, Bergamo, 1992- racconta le vicissitudini editoriali di una antologia celebre dedicata agli umoristi del Novecento ed uscita da Garzanti nel ’59.

Essa fu preparata da Vicari, ma siccome le sue scelte erano sembrate troppo ardite -o forse troppo poco commerciali- all’editore vi fu un intervento che drasticamente ridimensionò le presenze di alcuni autori, ampliò quelle di altri e insomma, a leggere una sobria nota di Vicari, apparsa sul “Caffè” n. 1 del gennaio 1960, da un’antologia che voleva essere votata alla letteratura d’eccezione si era arrivati ad una di letteratura amena; ad un repertorio dell’umorismo pieno e totale, quello senza “secondi fini”. La prefazione, affidata ad Attilio Bertolucci è appunto in quella direzione. La vicenda è interessante per un verso almeno: Vicari, spodestato dalla “sua” antologia garzantiana, promette ora al lettore una sostitutiva “antologia del Caffè”.

Non la fece mai, ovviamente, ma è utile sapere che Vicari guardava alla rivista come ad un luogo di incontri “eccezionali”, con ciò intendendo una letteratura fuori norma con aperture nelle più diverse direzioni. Nel numero 1 del 1967, Giorgio Manganelli discuteva di letteratura satirica: “Il gesto satirico ha un complemento oggetto: per diventare letteratura deve eluderlo, o perderlo. Anche l’odio può diventare un disegno astratto: innocente e vizioso. Ecco i due aggettivi che forse non disconvengono alla letteratura. Asociale, vagamente losca, cinica, da sempre la letteratura rilutta alla storia, alla patria, alla famiglia; a quelle anime oneste che tentano di mettere assieme il bello e il buono, risponde con sconce empietà. Un fondamentale elemento di disubbidienza governa gli impulsi della letteratura. Vedete come rilutta, come accetta anche di morire, quando la si vuol fabbricare onesta. È ascetica e puttana. Possiamo forse vedere la letteratura come una satira totale, una pura irrisione, anarchica e felicemente deforme; una modulazione del blasfemo...”.

Sul medesimo numero Vicari insieme a Cesare Milanese tentava una definizione della letteratura come irrisione e discutendo una notarella apparsa su “Quaderni piacentini” che incitava a “lavorare sulla realtà” obiettava che tutti avevano sempre inteso lavorare sulla realtà “una certa realtà, quella dei rondisti come quella dei neorealisti, degli idealisti e dei materialisti. Ma oggi gli stimoli e le provocazioni sono così ravvicinati, che le reazioni sono tanto subitanee da dare la vertigine”. Vicari non è Breton, ma in qualche modo “Il Caffè” fa supplenza ad un surrealismo che da noi non fu mai esplicitamente codificato. Senza nessun bisogno di affondare nei pantani della teoresi letteraria e politica quelli del “Caffè” si muovono pragmaticamente, riconoscono a occhio chi ha il loro medesimo Dna letterario e gestiscono dunque allegramente, in un momento pieno di tentazioni “contro”, il rovesciamento bachtiniano, cogliendo nichilisticamente il carnevale dovunque ci sia aria di rivoluzione un po’ troppo seriosa. A cominciare, naturalmente, dall’individuazione dei lari e dei penati.

Non è certo casuale l’omaggio, più volte ripetuto, per uno scrittore come Christian Morgenstern, di cui -n. 5, 1967- “Il Caffè” pubblica una parodia dannunziana -“Il pranzo secondo Gabriele d’Annunzio”- che risale all’inizio del secolo, ma di cui erano già usciti sulla rivista i celebri versi del “Canto notturno del pesce” dove la quantità -l’indicazione della quantità- sostituisce qualunque altro valore semantico, simulando il muoversi ritmico della bocca del pesce sott’acqua. Il grottesco sfiora talvolta il goliardico, ma i confini indicati sono chiari: meglio precipitare nel “basso” comico che tentare “l’alto” retorico di timbro dannunziano, già di per sé così iperletterario, così parodico del sublime.

 Altri antenati amatissimi risultano Charles Cros, quel francese che morì perché amava troppo gli aperitivi, Jarry con la sua patafisica, Michaux, e tra i nostri, Collodi, Dossi e Palazzeschi.

Nel 1971 Vicari pubblicò presso l’editore Longo di Ravenna un libretto intitolato “La letteratura fuori di sé” con una prefazione di Luciano Anceschi. “Ho l’idea”, scrive Anceschi, “che pochi, pochi davvero, si siano accorti del significato che nel recente passato hanno avuto e hanno ancora nel presente la direzione e la cura, non comode, di una rivista come “Il Caffè”. Non mi fermerò qui a ricordare come alcuni dei nomi di giovani che comparvero sul “Verri”, si leggano, poi, anche sul “Caffè”; dirò, invece, che noi dobbiamo a Vicari il riconoscimento e la definizione di un filo sottile della vita della letteratura, una letteratura che, dopo essersi distrutta nell’ironia, non ha paura di ritrovarsi come stravaganza e “nuova” libertà. Ormai certi nomi li sappiamo tutti, e con certe relazioni, certe consonanze; ma Vicari li ha riconosciuti e raccolti prima di qualunque altro, con un gesto insieme affettuoso, preciso, e distaccato.”

In effetti a leggere certi numeri del “Verri” sembra di essere dentro “Il Caffè”. Nel numero 7 del 1963, per esempio, “Il Verri” pubblica due poesie di Delfini, una sua lettera sulla “Certosa di Parma” in polemica con un articolo uscito sulla “Gazzetta di Parma”, una nota di Fratini che riguarda Delfini, la sua morte presunta celebrata in un garage, Vicari e “Le poesie della fine del mondo” scritte per “la figlia del padrone dei bicchieri”, Luisa Bormioli, mutata in Misa Bovetti. Dunque la linea del “Caffè” muove da istanze simili a quelle del “Verri” anche se meno dichiarate e prosegue, come si è già detto, trovando naturali alleanze con la neoavanguardia e con la nuova aria sessantottesca.

 Nel ’78, morto Vicari, la rivista sospende le pubblicazioni e conoscerà un revival postumo ed effimero. Nel marzo 1980 ecco un numero edito da Officina edizioni e diretto da Carlo Contreras. “Il nuovo indirizzo del Caffè”, si legge in una nota redazionale diretta agli amici della rivista, “ è ora in via Margutta 31,00187 Roma, presso lo studio Gabrielli... scriveteci al nuovo indirizzo. E cercate di dimenticare, per favore, il vecchio, glorioso recapito di via della Croce 67. La portiera dello stabile, dopo tre anni passati a smistare una mole considerevole di corrispondenza diretta al vecchio ’Caffè’, è prossima a rifiutarci la sua collaborazione”. Come non leggere in queste poche righe l’involontario, definitivo necrologio della vecchia rivista di Vicari? Tutto si era consumato in pochi metri quadrati del centro di Roma.

Non poteva esserci un “Caffè” senza di lui, tessitore di irridenti e ben riconoscibili trame. Sotto sotto, sebbene vigilasse sul mondo, Vicari, che era nato nel 1909, quando guardava all’estero aveva in mente Parigi, come è accaduto a quasi tutti gli intellettuali della sua generazione, prima che New York prendesse il sopravvento. Se di qua dalle Alpi c’era dunque il nume tutelare Delfini, il duca di Modena, dall’altra parte giganteggiava Queneau: ambedue superbamente “post”.

Sul “Caffè”, che a Queneau dedicò anche un intero numero, compare un frammento di “Zazie”, e numerosi altri scritti. La vivacità di quegli anni è perfettamente riconoscibile e la letteratura, per usare l’espressione di Vicari, è spesso davvero “fuori di sé”.

Se non altro elude i facili commerci e tenta vie impervie, poi presto abbandonate dal demi-monde che cerca di sfruttare la situazione. Se ne era già accorto un altro “caffeinomane” come Fratini, quando nel n. 1 del ’77, in una lettera postuma a Flaiano, ormai preda innocente, anche lui, dei cacciatori di successo, lo invita a ritornare per allontanare i mercanti dal tempio e sbugiardare tutti coloro che giuravano di averlo conosciuto, frequentato, ispirato e via seguitando. “A Sant’Ignazio alcune dame di San Vincenzo distribuiscono, dopo la messa, santini di te e di tua madre sulla spiaggia di Pescara, estate 1914...”